L’esame del quadro, in concomitanza con i lavori di restauro effettuati nel 1988, ha consentito di effettuare alcune deduzioni circa il supporto ligneo originario dell’opera, che doveva essere formato da tavole disposte in orizzontale. Il legno era molto danneggiato alle estremità, soprattutto lungo il bordo inferiore. Ciò fa pensare che all’atto di riportare la pittura su un nuovo supporto, il quadro venisse un po’ ridotto. Laddove vi sono lacune dello strato pittorico si osserva il disegno, tracciato in nero sul gesso.
Lo stato di conservazione dell’opera, non molto soddisfacente, l’ha un po’ svalutato agli occhi della critica contemporanea. Crowe e Cavalcaselle ocurato delle valutazioni ne dell', tracciato a gesso originario fu quasi completamente rimosso. d alcune conclusioni (1871; 1912) sono stati i primi a chiedersi se alla sua realizzazione non avessero partecipato aiuti del maestro: «This piece, transferred to canvas, is opaque either from restoring or from the employment of assistant by Cima himself». Questo parere ha influito sulla posizione di alcuni studiosi, in particolare Coletti (1959) e Menegazzi (1981), che ritenevano che il quadro fosse stato dipinto con l’intervento della bottega di Cima.
L’appartenenza dell’opera alla mano dello stesso Cima da Conegliano, invece, viene confermata non solo dal livello artistico dell’opera, ma anche dalla storia della commissione del quadro da parte del convento dei carmelitani di Venezia (Scuola di Sant’Alberto di Trapani, fondata nel 1401), narrata nel XVII e nel XVIII secolo da Marco Boschini, Anton Maria Zanetti e Maria Federici. Il frate carmelitano raffigurato nel quadro, secondo Humfrey (1988), sarebbe Sant’Alberto di Trapani.
Il primo a menzionare il quadro del Museo Puškin è Boschini: «Nel Capitolo, una tauola con nostro Signore, deposto dalla Croce nelle braccia della Vergine Maria, con le Marie, San Giouanni, San Nicodemo, San Simeone: opera di Battista da Conegliano» (Boschini 1664).
Un secolo dopo, ne offre una descrizione Zanetti: «Nel Convento de Carmini sotto primo chiostro conservasi una tavola di questo con Cristo morto in seno alla Madre, con le Marie, ed altri Santi» (Zanetti 1771).
Un’ultima volta, il dipinto viene ricordato da Federici: «...nel Capitolo dei Frati Religiosi la deposizione di Gesù Cristo dalla Croce nelle braccia di Maria, con le S. Donne, S. Giovanni, Nicodemo e Simone Cireneo ...» (Federici 1803).
Il motivo dominante nella composizione è il tema della croce. Cima assimila l’esperienza di Giovanni Bellini, nella cui opera i temi della Crocifissione e del Compianto funebre avevano trovato ampio sviluppo, esercitando un influsso sul formarsi di una ben precisa tradizione iconografica nell’ambito della pittura veneziana. Nel primo caso la croce con il Crocifisso domina sul paesaggio deserto circostante, mentre nel secondo la composizione presenta un gruppo di figure ritratte solo parzialmente, che piangono Cristo morto al centro. Nell’opera della collezione del Museo Puškin, per la prima volta Cima da Conegliano unisce insieme questi due tipi di raffigurazione e conferisce così al tema del Compianto un nuovo accento monumentale, rispondente al carattere della pala d’altare. Adolfo Venturi (1915) è stato il primo a richiamare l’attenzione sul legame tra il gruppo di figure della composizione moscovita e la tradizione della scultura emiliana in terracotta del XIV secolo. Humfrey (1983) mette in rilievo la somiglianza tra la testa di Giuseppe d’Arimatea e il san Sebastiano della pala d’altare a lui dedicata, dipinta nel 1507 per la chiesa di San Giovanni Crisostomo a Venezia. Come variante del «Compianto», alcuni studiosi citano un quadro della Galleria Estense di Modena (107 × 135; Cima da Conegliano 1962, N. 20, ill. 23). Questa ipotesi, a mio parere non acettabile, è sostenuta da vari autori. In primo luogo, il quadro di Modena, dove il gruppo di figure è rappresentato sullo sfondo del sepolcro, si collega a un altro momento della storia evangelica; in secondo luogo, venne dipinto per una commitenza privata, e non come pala d’altare; infine, dal punto di vista stilistico rispecchia un’altra fase nell’evoluzione artistica del maestro (Markova 1994).
Nel catalogo manoscritto di pittura italiana, conservato negli archivi dell’Ermitage, Liphart (1928) asseriva che il quadro era stato dipinto intorno al 1505. Nella bibliografia scientifica più recente compaiono datazioni diverse: Соletti (1959), lo attribuiva all’ultimo decennio del XV secolo; Hadeln (Tieme-Becker 1912), Fiocco (1912), Pallucchini (1944; 1962; 1980) lo ritenevano del 1505 circa; Burckhardt (1905), Berenson (1919; 1936; 1957), Lazarev (Lasareff 1957), lo datavano intorno al 1510, e questa datazione sembra la più corretta.